venerdì 29 Marzo, 2024 - 6:38:52

Alla ricerca del relitto tra Torre dell’Ovo e la Madonnina

Il brano che vi proponiamo è la storia di una nave militare greca naufragata nel mare della Madonnina di Maruggio nel IV secolo a.C. Qui è raccontata attraverso la rivista americana National Geographic , le cui pagine sono riportate nel libro del nostro Tonino Filomena e del capitano Benito Antonelli dal titolo Il relitto della Madonnina (Grazioli sas, 2004). Il testo, che ha goduto del patrocinio della Presidenza della Camera dei Deputati, Ministero per i Beni e le Attività Culturali e Ministero delle Politiche Agricole e Forestali, è reperibile presso la Biblioteca comunale di Maruggio.

I ricercatori americani (v. foto) George Bass (1932- in vita) e Peter Throckmorton (1928-1990), pionieri e padri dell’archeologia subacquea, si affacciavano al Mediterraneo agli inizi degli anni Sessanta con i rinvenimenti e gli scavi di Capo Gelidonya e Yassy Ada (Turchia). Solo in seguito, Throckmorton ed altri sub, condussero le loro ricerche lungo le coste italiane e in particolare lungo la fascia ionico-salentina a Sud di Taranto. L’americano rinvenne numerosi relitti marini nel Golfo di Taranto. In molti casi, per la verità, li documentò molto superficialmente, fino al punto che essi risultano, ancora oggi, sconosciuti agli stessi tarantini [Così anche per il relitto di Torre Sgarrata ].

Throckmorton, dopo aver raggiunto Taranto nel febbraio 1967, proseguì lungo la costa orientale della provincia ionica a caccia di relitti marini. Dopo due anni decise di portare a conoscenza del vasto pubblico le sue scoperte attraverso le pagine della rivista americana National Geographic , che riportiamo qui di seguito.

«Nel 1967 immergendomi nel golfo di Taranto, nel sud dell’Italia, rinvenni un relitto di epoca romana. Fu la mia straordinaria buona stella a farmi raccogliere, dal fondo marino, pezzi di fasciame della nave, molti di essi ricavati da larghi legni di pino; sembravano così gialli e freschi come il giorno in cui la pianta venne abbattuta. Legno, chiodi e tenoni erano ancora uniti alle costolature ricavati da alberi cresciuti prima che Gesù Cristo calpestasse le colline sassose della Palestina. Cos’è potuto mai accadere che ha reso possibile a questo relitto di preservarsi così a lungo e diventare un ulteriore tesoro archeologico? La spiegazione sta soprattutto nel carico di sarcofagi di marmo. Una partita di sarcofagi semilavorati con i loro coperchi. Blocchi architettonici e pannelli levigati, stivati sulla nave approssimativamente come venne effettuato diciotto secoli fa. Questo carico pesante ha schiacciato le travature sottostanti. La sabbia protettiva si è posata tutt’intorno ricoprendo il sito del relitto, sigillando il legno da tutti gli altri elementi, meno l’acqua salata. Siamo venuti nel Golfo di Taranto dalla parte bassa dello stivale, seguendo, un’eccitabile traccia che parte da Methoni, una punta a Sud-Ovest della Grecia. Pezzi di ceramica, rinvenuti sotto il carico affondato di sarcofagi di granito semilavorati, ci permisero di datare il relitto al terzo secolo dopo Cristo. Noi deducemmo che la nave a vela era diretta in Italia. A Ravenna gli archeologi avevano trovato sarcofagi identici. Ciò che pubblicai sul relitto di Methoni non passò inosservato allo sguardo del professor John Ward-Perkins, direttore della British School di Roma, un esperto sul commercio dei marmi romani. Egli lesse il rapporto sugli affondamenti delle navi cariche di marmi naufragate in Francia e Grecia, ma si mostrò particolarmente interessato alle notizie riguardanti il Golfo di Taranto. Sommozzatori italiani, inviati dal Museo Nazionale di Taranto prima della seconda guerra mondiale, avevano esplorato un relitto pieno di sarcofagi di marmo, ma interruppero il recupero quando compresero che i sarcofagi non presentavano nessuna scultura. Incoraggiato dai nostri rinvenimenti in Grecia, il professor Ward-Perkins suggerì al dottor Froelich Rainey, direttore del Museo dell’Università di Pennsylvania, che un’esplorazione nel Golfo ionico avrebbe dato i suoi frutti. Il mio compito, in qualità di collaboratore esterno del Museo Universitario, era di ricercare, localizzare e identificare i relitti navali antichi. A suo tempo fui abbastanza fortunato nel rinvenire gli affascinanti relitti a Capo Gelidonya e Yassi Ada che, io e il dottor George Bass, abbiamo descritto in quattro articoli sul National Geographic. In me permaneva un forte desiderio di localizzare una nave d’epoca romana, con molto legno, ben conservato, affinché potessi ricostruirlo in grandi linee. Nella primavera del 1964, il professor Rainey m’inviò a Taranto per cercare di ritrovare il relitto con i sarcofagi abbandonati. Sul posto fui affiancato dal rosso John Bullit, un professore di lingua inglese a Harvard. Come sub, nella passata stagione estiva, John aveva lavorato con me sul relitto di Methoni. Un vecchio pulmino Volkswagen, un compressore e autorespiratori ad aria compressa, rappresentava il nostro equipaggiamento. Il direttore del Museo Nazionale di Taranto, professor Attilio Stazio, ci informò che coloro i quali avevano rinvenuto il relitto in passato, nel frattempo, erano tutti deceduti e nessuno ricordava l’ubicazione del relitto. Qualche pescatore credeva di averlo individuato nei pressi di un luogo chiamato Torre dell’Ovo, localmente denominata la ‘torre della pecora’ (tower of the sheep).

John ed io ci avviammo lungo la costa piana verso Torre dell’Ovo, una torre di avvistamento del sedicesimo secolo costruita in Apulia a protezione della costa contro i pirati barbari. Infine usata come postazione radar durante la seconda guerra mondiale. La torre era ora abbandonata ai ratti e ai vandali di passaggio. Una pensilina di conglomerato cretoso era la base operativa per i pescatori di tonni, proiettata entro la baia vicino la torre. L’acqua splendente, luccicante, chiara e blu, infiammata dal sole di mezzodì ci fece decidere di andare lì a nuotare e cercare di rimediare il nostro pranzo. Vidi un polpo e poi un altro. Li catturammo entrambi. Una dozzina di pescatori barbuti, con pantaloni a brandelli e chi anche in mutande, stavano tirando a secco le loro grosse lance a remi, nel momento in cui noi rientravamo a riva. Essi fecero un cenno d’approvazione quando iniziai a percuotere i polpi sulla pensilina per farli diventare teneri. Quando terminai l’operazione, un uomo dalla carnagione scura, apparentemente snello, il loro capo, venne vicino e ci offrì delle sigarette. “Da dove provenite?” – domandò. Nel nostro pessimo italiano chiarimmo che eravamo americani. “Io ho molti cugini in America. Felice di conoscervi. Il mio nome è Francesco [D’Andria].” Egli era il capo della tonnara, quel complesso di reti calato in mare per intrappolare i tonni [ ]. “La camera della morte” – disse Francesco con sommessa orribile risata (“room of death”). Lui e i suoi uomini, c’invitarono a dividere la loro colazione. Francesco aveva con sé del pane, formaggio di capra e vino rosso. Facemmo domande sul relitto e confidammo loro che si cercava il luogo ove potesse celarsi [il relitto]. “Io non so nulla sui vostri sarcofagi, ma chiederò in giro”- disse Francesco – facendomi un occhiolino di cospirazione. “Per gli altri problemi che avete, ho la soluzione”. Cercò entro le tasche della sua consunta giacca e recuperò un mazzo di chiavi annerite dall’ossido di ferro. Una era grande quanto la mia mano. Egli fece un gesto indicando la torre.“Tu potrai stare lì tutta l’estate se ti fa piacere”. Oltretutto costui sembrava essere anche il guardiano ufficiale della torre. “Vi aiuterò a trovare il vostro relitto e voi mi aiuterete a recuperare le ancore delle reti che perdo. Okay”? “Okay!”- noi rispondemmo all’unisono. Questo fu l’inizio delle nostre tre stagioni estive come inquilini della Torre dell’Ovo. Durante le settimane che seguirono, io e John, udimmo storie di fatti strani in mare. Identificammo dei resti sommersi di un porto romano di lavoro [ ] e molti avanzi di relitti navali rotti in malo modo in acque basse. Ma nessuna traccia del relitto pieno di blocchi di marmo. Mia moglie Joan si unì a noi poco prima che John Bullit partisse per gli Stati Uniti. Un giorno Francesco [D’Andria] lasciò un messaggio di andarlo a trovare. Lo vidi nel bacino controllare la pesca giornaliera dei tonni catturati che li stavano caricando su di un furgoncino per condurli al mercato. Egli mi dette una pacca affettuosa sulla schiena dicendomi: “So dov’è. Andiamo!”. Dieci minuti più tardi eravamo per la strada lungo il litorale”. »

Fernando Filomena

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Fernando Filomena
Direttore della testata on-line La Voce di Maruggio web development e giornalista pubblicista iscritto all’Ordine dei giornalisti e pubblicisti dell’ Emilia Romagna. Iscritto all'Associaziaone Stampa Reggiana“G. Bedeschi”. La sua occupazione principale è quella di responsabile di procedure informatiche nel settore giurilavoristico. Ha creato SosPaghe.it, sito privato di informazione sulle novità in materia di lavoro molto apprezzato a livello nazionale dagli addetti ai lavori. Attualmente vive e lavora a Reggio Emilia ma conserva un forte legame con la sua Terra dove torna ogni volta che gli impegni di lavoro glielo consentono, questa testata giornalistica ne è la prova. E’ stato per lunghi anni webmaster della testata on-line La Voce di Manduria fondata insieme a Nazareno Dinoi direttore e giornalista pubblicista dove ancora oggi conserva un grade legame di amicizia.

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