martedì 23 Aprile, 2024 - 13:26:06

Un mondo migliore

Un mondo miglioreIo il mio bambino lo volevo bello, intelligente e spiritoso. Per il resto mi importava poco. Me lo sono portato dappertutto per nove mesi, lui nel suo liquido amniotico e io nella mia certezza che il mio sarebbe stato un viaggio normale, come normali sono i bambini che giocano ai giardinetti e che imparano le tabelline. Venne fuori dal mio corpo che era bruttino: tutto rosso, con la testa a cono. Eppure era ancora più bello di quello che la mia fantasia aveva finora proposto.
Poi quattro mesi bellissimi, con un figlio bravo, pacato, che dormiva tredici ore a notte, allattava bene e via. C’era solo una cosa: non sorrideva, non ci guardava. La dottoressa allarmata ci mandò a fare degli esami, mentre la mia immagine di famigliola normale cominciava a far crepe. E poi, una settimana prima del suo primo compleanno, BUM: sindrome di Down, ma di quelle rare, che a prima vista non si vedono, dove solo parte delle cellule hanno un cromosomo in più. Mosaicismo. Lo chiamano così questo tipo, una parola anche bella, piena di immagini artistiche, le mille possibilità intrinseche nei  mosaici, con le piastrelline che se le metti di qua fanno un disegno e le metti di là e ne fanno un altro. Fluidità, armonia di forme e colori.
Oppure: un altro film, una strada mai presa in cosiderazione. Una piastrella enorme, su cui sbatti la faccia. Mi ricordo la sensazione di avere perso il mio bambino bravo e normale e di averne trovato uno completamente diverso, difettoso, sbagliato.
È una strada all’inizio solitaria e difficilissima: ci si ferma sul ciglio, ci si chiedono diecimila perché, si inciampa in paure, gelosie nei confronti di altri bambini, altri genitori; ci si perde, non si sa bene dove andare. Ma poi, dopo un po’ che si va avanti la strada comincia a farsi più larga, e invece di guardare sempre per terra o indietro, si comincia a guardare avanti. E davanti c’è un mondo.
Di quel mondo noi sappiamo solo le cose brutte: ritardo mentale, emarginazione, problemi cardiaci, solitudine. Le cose che si pensano quando si vede per la strada una persona con la sindrome di Down. Un mondo che siamo programmati a voler escludere a priori, ad evitare a tutti i costi. Anche io ero così, prima di questa esperienza: io un bambino con la sindrome di Down non lo volevo, perché voleva dire tutto il brutto che c’è in quel mondo lì, perché voleva dire che per tutta la vita avrei dovuto avere questa palla al piede, questo handicap. Si diventa cattivissimi, quando tocca a noi.
È un passaggio lento e complesso quello dal panico alla normalità, reso ancora più difficile dall’ignoranza e dai pregiudizi. Mi sono sentita dire: “Se rimango incinta e scopro che il bimbo ha la sindrome di Down io abortisco, perché a me non piace la sindrome di Down”. Mi sono sentita dire: “Vai tranquilla, che tanto non si vede che ha la sindrome di Down”, come dire l’importante è l’aspetto fisico. Mi sono sentita dire: “Io non ce la farei mai se fossi in te”. Tutte cose impossibili da digerire, ma che mi hanno fatto capire quanto siano all’oscuro le persone che non sono state invitate in quel mondo, quanto io sia contenta di non essere come loro.
Devo dire, e lo so che viene sempre fuori come un cliché, ma se qualcuno mi dicesse: se adesso potessi scegliere cosa faresti?, io questa esperienza non me la vorrei perdere per nulla al mondo. Per Luca, che è una persona contenta di essere quello che è, felice e amato da tutti quelli che gli stanno intorno; perché Luca è Luca e se fosse diverso sarebbe un’altra persona, ma io voglio bene a questo Luca qui.
Ma egoisticamente non vorrei perdere questa esperienza per quello che ha dato a me, perché adesso mi sento una persona migliore, sono cittadina di due mondi che, diversamente da quello che si pensa, vivono in completa armonia, ho imparato ad apprezzare un modo diverso di stare al mondo ma non per questo migliore o peggiore del nostro. In un periodo storico in cui la multicultura viene messa al primo posto come segno di civiltà moderna e organica, posso dire di essere l’esempio lampante di come ci si senta più completi quando crollano i muri dell’ignoranza e del pregiudizio, di come ci si senta liberati da un peso soffocante che è la chiusura mentale.
Per cui auguro a tutti di avere un’esperienza come la mia: diventereste persone migliori anche voi.
Scrivo queste cose nella speranza di poter invitare persone che non hanno figli con la sindrome di Down a provare a vedere oltre il muro che li rinchiude. Spero che mi lasciate nei messaggi due righe per condividere i vostri pensieri, le vostre paure o le vostre esperienze. Vi ho lasciato, spero, una fessura da cui sbirciare, e vi lascio anche un segreto: se spingete un po’ i mattoni attorno a voi, la fessura diventa, porta, diventa valico.
Diventa libertà.
Ecco il video che CoorDown ha fatto quest’anno per la campagna di sensibilizzazione alle persone affette dalla sindrome di Down, in risposta a una lettera di una donna incinta che ha saputo che suo figlio sarà affetto dalla sindrome. Spero che lo guardiate e che lo diffondiate. Aggiungo che la bimba italiana che parla con la erre moscia è Emma e che la sua mamma è Martina Fuga, di cui condivido il racconto.
Buona giornata!
Marina Viola su http://pensierieparola.blogspot.it/
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