ROMA – Sulla pelle le rose del deserto. Un canto che aveva nel tremore della voce una nenia. Sembra una litania. Quella voce che era eco. Trasmetteva echi. La Moschea aveva di fronte il mare. Un mare la cui spiaggia aveva cocci di conchiglie e piccole pietre. Gli scogli tagliati a perfezione dalle onde. Sarashil portava un foulard. Lungo. Uno scialle. Avvolto sul collo ma una parte copriva soltanto il capo. Il vento sfogliava la lunga gonna. Calzava dei sandali.
“Perché mi guardi con lo sguardo di un uomo incredulo”. Dice Sarashil a Garcia.
“Qui tutto ha un respiro d’Oriente e devi sentirlo dentro questo respiro prima di respirarlo. Devi viverlo con l’anima e con il cuore”. Ancora Sarashil.
Mi sorride e il suo sorriso è terribilmente bello. Fascinoso.
Gli occhi. Due perle nere che hanno i riflessi della luna in una notte nera.
“Perché il destino ha voluto che ci incontrassimo a Tunisi? Nonostante io sapessi già il cammino tuo che sarà il cammino mio? Resti ancora troppo Occidentale. Liberati dalle convenzioni e affidati al mistero. Io alla profezia. Ascolta. Ti racconto un piccolo passaggio di una storia breve. Ecco”.
Si ferma un istante e poi: “Una volta, non tanto tempo fa, ma neppure l’altro ieri, da queste parti viveva una regina. Giunse tra i suoi mari uno straniero. Uno straniero che aveva negli occhi la tragedia e la fuga. Lo accolse con la tenerezza e la passione di una donna che incontra la solitudine e la disperazione di un uomo che porta nel cuore le ferite e il bisogno d’amore e d’amore. Lo straniero non resiste alle lusinghe della regina. Era una donna di un fascino irresistibile ma anche lei portava negli occhi il pianto di passate stagioni e tante stagioni lacerate. Molte notti rimasero insieme e le grida d’amore e di intensi piaceri erano nell’ascolto del Mediterraneo. Ma lo straniero aveva nel cuore la partenza e il viaggio. Si scavarono nel profondo dell’anima e in un’alba confusa tra i colori della sera lo straniero riprese il viaggio”.
Un’altra piccola pausa e poi: “La regina disperata si depositò tra le mani della morte. Per troppo amore si muore. Per un amore che fugge si muore. Si muore per un amore che non si raccoglie nel sublime. Così la regina preferì non esserci più nella vita. Lasciò che lo straniero prendesse nuovamente i remi in mare aperto e si lasciò rapire dagli occhi della morte e la morte venne ed ebbe i suoi occhi…”.
È una storia che conosco già. Mi dico.
“Lo so che conosci, tu Occidentale, questa storia. O meglio questa sciagura. Per noi, sempre nelle parole di Sarashil, è il consegnarsi, il donarsi, alla morte pur di non vivere l’assenza. Ma tu pur conoscendolo questo destino non lo capirai mai nella sua essenza perché non sai che la morte la si porta negli occhi…”.
Lasciamo il giardino della Moschea e ci portiamo a ridosso di uno scoglio.
Le chiedo: Perché mi hai voluto ricordare questa storia e questo mito?
“Ecco, sbagli. Può essere una storia il destino tra la regina e lo straniero, ma non puoi leggerlo come un mito. Vuoi Occidentali vi siete impadroniti anche di questo destino, ma non vi appartiene. Tra impadronirsi e appartenere c’è un vento di troppo. Per voi, senza mai una pausa nelle parole di Sarashil, è diventata una trascrizione della classicità tra Grecia e Roma. Ma qui siamo in Oriente. Siamo nel vero Oriente e né Roma né la Grecia possono fermare i nostri cammini. Quella regina era l’Oriente. Quello straniero aveva l’Oriente nel cuore, ma l’Occidente nella mente. E la mente ha preso il sopravvento”.
Perché mi parli con questo sorriso quasi stregato? Guardandole lo sguardo e le labbra dico.
“Non ho sorrisi. Posso avere alchimie. Possono stregare, ma voglio custodire questo destino avvolto nel mistero per farti capire che qui non c’è una storia sola e non c’è una storia fatta di uomini e di civiltà soltanto. Qui ogni storia o la storia è un attraversamento di passione, di sensi e di dolcezze, di pensieri che hanno ricordi, di tristezze e di fascino, di memorie, di dedizione e di morte. Noi ci portiamo dentro il mare perché ci portiamo dentro la madre e la morte. Ci portiamo dentro la pazienza perché viviamo il silenzio dei padri, la pazienza e la pietà”.
Mi sto convincendo che Sarashil ha bisogno di riflettere per il libro che dovrà scrivere e credo che l’argomento sia proprio focalizzato intorno alla regina, lo straniero e il mare. Non mi sbaglio.
Infatti lei mi sussurra: “Quando finirò di scrivere il mio libro non vorrò più tornare tra questi luoghi anche se c’è la mia vita e la mia vita è contornata di luoghi, di scenari e di deserti. La mia via è contornata di mare, di sabbie e di questa gente che ha la parola araba e lo sguardo profondo tanto da sondare negli incagli delle maree e delle navi sepolte nel fondo del mare e leggere nelle acque il silenzio di antiche civiltà e recitare le storia delle memorie seppellite nel fondo marino. O forse mi fermerò qui”.
Abbassa gli occhi e continua: “Mi fermerò qui. Tra questa gente, e abiterò il silenzio e gli occhi della morte della regina che ha visto partire lo straniero venuto da altre terre e altri mari. Non c’era disamore tra le mani e nel cuore dello straniero. C’era la passione, i sensi di fuoco, le notti di fiamme che lo riportavano al fuoco della sua città incendiata e distrutta. Ma non disamore”.
E proprio per questo, mi intrometto nel suo dire, la regina avrebbe dovuto capire….
“Capire, comprendere, dettarsi una consapevolezza… Parli un linguaggio scontato…”.
Osservo il gesticolare delle sue mani e, questa volta, uso le virgolette perché ricordo con precisione le parole che ho pronunciato “Sei bellissima… Hai occhi di luna nella notte nera… Sento che mi appartieni… E più mi racconti questo amore immenso della regina per lo straniero e più mi penetri con gli occhi e con i sensi… Vorrei amarti qui, ora, e darti i baci che segnano l’infinito… Le tue labbra hanno il sale della mareggiata e le mie mani hanno, tra le linee, piccoli granelli di sabbia … Baciami con la delizia dell’incanto di donna d’Oriente”.
Ci siamo raccolti nel suo ampio scialle.
I suoi capelli, tirati nel velo di seta, scendevano sul mio viso e le mie mani cercavano i suoi seni. Non ci siamo persi. Lei ha sorriso, questa volta, sì, ha sorriso e poi ha vissuto l’inteso dei nostri corpi…
“Non so se finirò mai di scrivere questo mio libro”, pronuncia Sarashil. “Bisogna scriverli certi libri ma ciò che si scrive bisogna averlo vissuto ma quando lo si vive è necessario scriverlo?”.
Non rispondo.
Mi prende per mano e mi dice sottovoce: “Perché la regina alla partenza dello straniero è entrata negli occhi della morte?”.
Non rispondo e lei non insiste.
Mi afferra il viso e terribilmente mi morde le labbra: “Voglio vederti ancora. Viverti nel mio ascolto e custodire il tuo silenzio. Ma non mi cercare. Sarò io a trovarti. Come sempre. Comunque ci diamo appuntamento sulla collina di Byrsa, tra l’archeologia di Cartagine. Non ti dirò il giorno, l’ora e neppure se tra quanti spazi e in che distanza di tempo… Dovrai percepirlo… Se siamo entrati in questo mistero tutti i nostri incontri saranno tratteggiati dall’alchimia… Vedrai, una voce ti giungerà come un sogno e ti dirà… Ora portami all’ingresso della Medina. È tardi. Lì prenderò un taxi”.
Sarashil ha una bellezza che fa tremare.
Aspetto questa voce. L’alchimia.
Gli appuntamenti sono sempre destini, ma la storia tra la regina e lo straniero avrà un seguito?
Parlo di storia? Non è più possibile. Di magia sì.
di Pierfranco Bruni
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