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IL BASILICO: NOTE ETNOBOTANICHE

 

Ocimum basilicum

Basilico deriva, tramite il latino basilicum, dal greco basilikós, ovvero “regale”. Ocimum significa “profumo”, e il suo nome botanico è Ocimum basilicum.

Oltre i ben noti impieghi aromatici, la pianta ha proprietà antinfiammatorie, antispasmodiche, stomachiche, carminative, diuretiche.

Nella medicina popolare l’infuso di foglie di basilico era utilizzato per curare emicranie, insonnia, pertosse, e contro il singhiozzo.

Le cime fiorite ed essiccate all’ombra erano un rimedio per i crampi causati dalla gastrite, per la costipazione intestinale e contro le flatulenze.[1]

Un decotto di rami e foglie di basilico in cui veniva sciolto del sale era utilizzato come impacco per mitigare gli infiammi della mucosa nasale.[2]

A Montesano Salentino si fissavano fasci di basilico ai piedi della statua di S. Donato nella convinzione che il basilico potesse preservare dall’epilessia[3] detta, appunto, anche “male di San Donato”.

San Donato

San Donato è il protettore degli epilettici, e probabilmente con questa offerta si volevano unire le virtù della pianta ai poteri del santo, ma soprattutto l’usanza sembra affondare radici in un rito medievale: difatti, nel Medioevo il basilico era usato per cacciare i diavoli dagli invasati, figure alle quali l’epilettico era assimilato. Anticamente l’epilessia era ritenuta una malattia dovuta alla presenza di un dio o di un demone, e San Donato è anche colui che libera Asterio dal demonio. Nei paesi del Salento, non diversamente, l’epilessia era considerata un male da curare attraverso l’intercessione dei santi.[4]

Più in generale, era credenza diffusa che il basilico potesse liberare l’aria dagli spiriti maligni, se tenuto su davanzali o nei pressi della casa. Altra usanza, quella di intingere le foglie in acqua oppure spargerle asciutte sul pavimento per scacciare influssi malefici.[5]

Al basilico era attribuito il potere di tener lontani sia demoni che serpenti, scorpioni, animali velenosi vari, zanzare e altri insetti.

Si usava anche porre la pianta vicino ai pomodori per tenere lontani gli insetti dai frutti.

La sola presenza in cucina o in sala da pranzo, poteva preservare da malesseri e disturbi causati da cibi cattivi, o avvelenati.[6]

Si pensava anche che il basilico guarisse dalla melanconia, e per questo vi era l’antico detto “mentis nubila pellit” (caccia l’oscurità della mente).

In Sicilia, nel palermitano, le culle dei neonati venivano protette con corone intrecciate di basilico, rosmarino, ruta, fiori d’arancio.

Presso gli antichi romani il basilico era sacro a Venere. I semi del basilico erano ritenuti afrodisiaci, e questa fama della pianta è rimasta per secoli ed è perdurata nella tradizione contadina: veniva dato da mangiare ad asini e cavalli nel periodo della monta, nella convinzione che potesse aiutarli ad essere più vigorosi e prolifici.[7]

Per Dioscoride il basilico ha numerose proprietà e impieghi medicinali, da diuretico ad antiinfiammatorio, e ha la particolarità di essere utile rimedio alle punture degli scorpioni:

“Mangiato copiosamente nei cibi iscurisce la vista, mollifica il corpo, commuove la ventosità, provoca l’orina, aumenta il latte: ma difficilmente si digerisce. Impiastrato con fiore di farina di polenta, olio rosato, e aceto, giova all’infiammazioni del polmone e per se solo alle punture del drago marino, e degli scorpioni: e insieme con vino di Chio, a i dolori degli occhi. Il succo messo negli occhi mondifica le caligini, e dissecca i flussi di quegli. Il seme bevuto giova a coloro, nei cui corpi si generano humori malinconici, alla difficultà dell’orinare, e alle ventoſità del corpo. Tirato su per il naso fa starnutare: il che similmente fa l’herba, ma bisogna nel starnutare comprimersi gli occhi. Astengonsi alcuni dal mangiarlo nei cibi: imperocchè masticato e posto al sole genera vermicelli. Dissero gli Arabi, che essendo trafitti dagli scorpioni coloro, che quel giorno han mangiato basilico, non sentono dolore alcuno.”[8]

Il Mattioli sottolinea che vi era anche la credenza opposta a quella evidenziata dal Dioscoride e da lui attribuita agli arabi: ovvero, secondo altri, tra cui Plinio, “non puo guarire, avendo quel giorno mangiato basilico, chi sia stato trafitto dagli scorpioni”.[9]

Si era attribuito a questa pianta persino il potere di generare scorpioni e vermi: “dissero alcuni,che mettendosi trito sotto una pietra ne nascono gli scorpioni: o che masticato,e posto al sole se ne generano alcuni vermi.[10] Anche il medico francese Antoine Mizauld (1510-1578) riporta una credenza simile: si pensava che il basilico messo nello sterco di cavallo facesse nascere “bestie velenose”. Il botanico seicentesco Nicholas Culpeper cita tal Hilarious secondo il quale è opinione diffusa che odorare troppo il basilico può far nascere scorpioni nel cervello.[11] Ancora, nella tradizione popolare siciliana si crede che gli scorpioni nascano da foglie di basilico messe sotto un recipiente d’acqua.[12]

Tra i predecessori del Dioscoride, Crisippo afferma che il basilico nuoce all’orina e alla vista, e può generare problemi al fegato, letargia e addirittura pazzia, e, prendendo ad esempio le capre che diffidano istintivamente di quest’erba, ne sconsiglia l’uso anche agli uomini. Secondo Plinio invece le capre mangiano il basilico, e l’antico naturalista romano corregge molte altre asserzioni di Crisippo, attribuendo proprietà salutari e benefiche al basilico. Così, la pianta, “preparata con vino e con l’aggiunta di poco aceto” costituirebbe secondo Plinio un rimedio contro il veleno di scorpioni di terra e di mare.[13]

Il Mattioli sottolinea più volte le proprietà attribuite dagli antichi al basilico, di sanare, bevuto con vino, le punture degli scorpioni, così come si pensava facessero altre erbe come la ruta o la menta. Inoltre, si pensava fosse “salutiſero a farlo odorare con aceto a coloro che tramortiscono, o si vengono meno[14]; ancora, “giova applicato con olio rosato, ovvero mirtino, ai dolori del capo”.[15]

Per Teofrasto il basilico aveva nientemeno che il potere di “trasformarsi” in timo, quando seminato in luoghi particolarmente scaldati dal sole (nota riportata sempre dal Mattioli).[16]

La Caggiano nel 1931 descrive un rituale di cura del tarantismo, in cui è presente questa pianta:

tutte le comari offrono – in prestito s’intende – fazzoletti, scialli, sciarpe, sottane, tovaglie d’ogni colore, vasi di basilico, di cedrina, di menta, di ruta, specchi e gingilli ed infine un gran tino pieno d’acqua. L’ambiente viene così addobbato e quando tutto è pronto la morsicata, vestita di colori vistosi, sceglie a suo gusto nastri, fazzoletti, sciarpe, che le ricordano i colori della tarantola, e se ne adorna in attesa dei suonatori” [17]

Stanti le proprietà di contrastare gli effetti dei veleni attribuite fin dall’antichità a questa pianta, la sua presenza all’interno del rituale potrebbe non essere casuale o meramente ornamentale.[18]

Il basilico è presente spesso negli unguenti delle streghe finalizzati al volo al sabba, non come componente psicoattivo ma, probabilmente, per le sue proprietà medicinali fortificanti e vitaminiche. E’ presente, per lo stesso motivo, anche in composti e filtri amorosi: già Plinio era convinto che le sue foglie avessero potere afrodisiaco, e gli antichi romani lo utilizzavano spesso come stimolante.

Enrico Malizia (un tossicologo dell’ Università La Sapienza di Roma che ha compiuto una ricerca di antichi formulari e manoscritti magici dal 1400 sino al 1800) elenca nella sua opera numerose ricette stregonesche nelle quali è presente il basilico, dai suddetti unguenti per volare a filtri “per diventare invisibili”, a creme, elisir ed infusi afrodisiaci.[19]

Un altro utilizzo magico del basilico è quello di porre un ramoscello sul corpo di una persona che dorme, per capire se una persona è ipocrita o bugiarda: se ha mentito o si è comportata in un qualche modo disdicevole, presto le foglioline avvizziranno.[20]

Come molte altre piante, il basilico gode di fama ambivalente: se da una parte è “erba dei re”, o toccasana per diversi mali, dall’altra è erba malefica, fino alla più completa contraddittorietà rispetto ai “poteri” attribuitigli: lo si è visto, ad esempio, quando abbiamo descritto la sua inconciliabile fama di “erba contro gli scorpioni” da quella di “erba che fa nascere gli scorpioni”. Secondo una antica credenza riferita da Plinio, mangiare basilico faceva “venire pidocchi”, e secondo alcuni antichi naturalisti, come abbiamo già evidenziato, la pianta poteva condurre alla pazzia. E ancora, si credeva anticamente che per potersi preservare da suoi poteri malefici, occorreva indossare abiti candidi per reciderla, e compiere un particolare rituale che prevedeva l’immersione di un ramo di quercia bagnato in tre fonti di acqua limpida, con il quale purificarsi la mano che doveva recidere la pianta.

Una antica usanza riferita dal Cattabiani è quella di “cantare il basilico”, cioè lanciare maledizioni contro la pianta: i contadini credevano difatti che si dovesse accompagnare la sua semina con ingiurie, maledizioni e imprecazioni, e in questo modo la pianta sarebbe cresciuta più vigorosa.[21]

Una leggenda racconta che l’imperatrice romana Flavia Giulia Elena, madre di Costantino I, venerata come Sant’Elena imperatrice, avrebbe trovato la pianta del basilico, originaria dell’Oriente, sul Golgota, luogo della crocifissione di Cristo che Elena visitò durante il suo viaggio in Palestina: Fu così, secondo tale credenza, che Elena diffuse poi la pianta nell’impero romano.

Nel Decameron, il Boccaccio racconta di Lisabetta da Messina, la quale si innamora di Lorenzo, un giovane pisano che curava gli affari economici dei fratelli di Lisabetta. [22] I fratelli, scoperto che Lisabetta e Lorenzo erano amanti, uccidono il giovane, nascondendo il crimine alla sorella. La ragazza, angosciata dalla scomparsa dell’amato, fa un sogno: le appare Lorenzo che le svela i fatti ed il luogo nel quale è stato sepolto dai suoi assassini. Lisabetta si reca così nel posto indicatole, e vi ritrova in effetti le spoglie del giovane. Per rendergli omaggio e poterlo avere sempre con se, gli taglia la testa e se la porta a casa, ponendola in un vaso nel quale pianta poi il basilico. I fratelli si accorgono che ogni giorno la donna piange su quel vaso e lo innaffia con le sue lacrime, e così, insospettiti, frugano e vi trovano dentro la testa di Lorenzo. Quindi, si disfano del vaso e fuggono a Napoli. Elisabetta morirà di dolore invocando il vaso di basilico nel quale era seppellita la testa dell’amato.

Lisabetta e il vaso di basilico, William Holman Hunt, 1867

Sempre in Sicilia, son diffuse altre leggende collegate a basilico e teste decapitate. L’origine di quel simpatico e colorato ornamento posto su balconi e su colonne degli ingressi di ville e giardini del sud, le teste di moro, è difatti piuttosto macabra. Si narra che nel periodo della dominazione dei Mori nell’isola, nel quartiere arabo Hal Hàlisa di Palermo viveva una bellissima fanciulla che passava le sue giornate a curare le piante sul suo balcone. La ragazza fu notata da un giovane Moro che iniziò a corteggiarla, dichiarandosene innamorato. La passione manifestata dal giovane fu ricambiata dalla donna, che si invaghì di lui. Il promesso sposo aveva però moglie e figli nella sua terra, all’insaputa della fanciulla siciliana, e in quella terra avrebbe dovuto fare ritorno. Quando la donna venne a conoscenza di tale realtà, iniziò a meditare la sua vendetta. Così, una notte, mentre il Moro dormiva, lo colpì a morte e gli tagliò la testa ricavandone poi una sorta di vaso all’interno del quale piantò il basilico. In questo modo, il suo sposo sarebbe rimasto con lei per sempre. Depose la testa sul balcone, e ogni giorno innaffiava con le sue lacrime il basilico che vi cresceva dentro.

Una variante della leggenda racconta invece che la fanciulla, di origini nobili, coltivava un amore clandestino con un giovane arabo. Scopertosi il fatto, i due amanti vennero puniti con la decapitazione. Come monito, le due teste furono situate su una balconata, adattate come vasi contenitori di basilico ed esposte alla vista dei passanti. Questa variante spiegherebbe anche perché le teste di moro siciliane sono sempre in coppia e rappresentano un uomo e una donna.

Coppia di Teste di Moro, ceramiche di Caltagirone

In Sicilia il basilico sul davanzale è anche simbolo d’amore, e segnale dato dalla innamorata: la ragazza che lo pone in vista, sta facendo sapere all’innamorato che passa, che è contraccambiato (in alcune zone però, poteva indicare la casa di una prostituta).[23]

Sempre in Sicilia, esisteva l’usanza della “comare di basilico”, ovvero una alleanza comparatica che si stringeva tra donne scambiandosi vasi di basilico nel giorno di San Giovanni Battista.

La presenza del basilico collegata ai corteggiamenti e come segnale d’amore ricorre anche in altre zone d’Italia, come ci fa notare il Cattabiani con una serie di esempi: in Abruzzo, in provincia di Chieti, un giovane contadino andava a far visita alla fidanzata portando sull’orecchio un rametto della pianta. In Toscana, una novella di uno scrittore del XV secolo narra di una ragazza che avverte il suo amato che può salire allorquando toglie il vaso di basilico dal davanzale; in un’altra novella toscana è sempre il basilico a far da “mezzano” tra due innamorati.[24]

Nell’isola di Creta il basilico è simbolo di lutto, e un canto popolare di quella terra recita: “basilico, erba di lutto, fiorisci sulla mia finestrella: anch’io vado a coricarmi nel dolore e mi addormento piangendo”.[25] Secondo il De Gubernatis l’usanza cretese e la favola raccontata dal Boccaccio hanno una radice comune, che si rintraccia nella letteratura bizantina e ancor più a ritroso, sostiene il Cattabiani, nelle credenze preistoriche legate al culto della Grande Madre.[26]

In India il basilico (in questo caso un’altra specie, ovvero Ocimum tenuiflorum, sin. Ocimum sanctum,) è consacrato a Lakshmã, sposa di Víshnu e dea della bellezza, della quiete e dell’armonia. E’ attributo e alter-ego di questa divinità, e si pensa protegga, purifichi e allontani ogni male; inoltre, si crede favorisca le nascite a chi desidera figli. Al contempo, è erba funeraria in quanto viene posta sul petto degli uomini morenti, con lo scopo di aprire loro il cammino del cielo.[27]

Nella regione indiana del Malabar è testimoniata una antica usanza di adorazione di Ocimum sanctum, al quale viene innalzato un altarino. Gli abitanti del Malabar celebrano così ogni giorno la pianta, pregando rivolti ad essa, cantando, danzando e innaffiandola. Si pensa che gli dei amino particolarmente quest’erba.[28]

    1. Domenico Nardone, Nunzia Maria Ditonno, Santina Lamusta, , Fave e favelle, le piante della Puglia peninsulare nelle voci dialettali in uso e di tradizione, Centro di Studi Salentini, Lecce, 2012, pag. 161
    2. Domenico Nardone et al., op. cit., Pag. 161
    3. Ibidem
    4. Ada Nucita, Il “male di San Donato”, BPP, sito web, 1986
    5. Alfredo Cattabiani, Florario. Miti, leggende e simboli di fiori e piante, Mondadori, 1996, ristampa 2016, pag. 394
    6. Alfredo Cattabiani,op. cit., pag. 395
    7. Alex Revelli Sorini, Susanna Cutini Storia e proprietà del basilico, in Taccuini Gastrosofici, Enciclopedia Digitale di Culture e Politiche Alimentari, sito web
    8. Pietro Andrea Mattioli, I discorsi di M. Pietro Andrea Mattioli, medico sanese, ne i sei libri della materia Medicinale di Pedacio Dioscoride Anazarbeo, 1557, pp. 280-81
    9. Pietro Andrea Mattioli, op. cit., pag. 281
    10. Pietro Andrea Mattioli, op. cit., pag. 282
    11. Nicholas Culpeper, The Complete Herbal, 1653, ried. 1841, Londra, pag. 28
    12. Marco Miosi, Il basilico tra storia, simbologia e culinaria, CIA Puglia, aprile 2011
    13. Gaio Plinio Secondo, Naturalis Historia, XX, 121
    14. Pietro Andrea Mattioli, op. cit., pag. 282
    15. Ibidem
    16. Ibidem
    17. Anna Caggiano, La danza dei tarantolati nei dintorni di Taranto, in Folklore italiano: archivio trimestrale per la raccolta e lo studio delle tradizioni popolari, VI, 1931, pag. 72
    18. Gianfranco Mele, Erbe e tarantismo, Fondazione Terra d’Otranto, sito web, ottobre 2021
    19. Enrico Malizia, Ricettario delle streghe, Edizioni Mediterranee, 2003
    20. Alfredo Cattabiani, op. cit., pag. 397
    21. Ibidem
    22. Giovanni Boccaccio, Decameron, Giornata IV, novella 5
    23. Alfredo Cattabiani, op. cit., pag. 396
    24. Alfredo Cattabiani, op. cit., pp. 396-97
    25. Alfredo Cattabiani, op. cit., pag. 397
    26. Alfredo Cattabiani, op. cit., pag. 398
    27. Alfredo Cattabiani, op. cit., pag. 395
    28. Ibidem

 

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Notizie su Gianfranco Mele

Gianfranco Mele
Sociologo, studioso di tradizioni popolari, etnografia e storia locale, si è occupato anche di tematiche sociali, ambiente, biodiversità. Ha pubblicato ricerche, articoli e saggi su riviste a carattere scientifico e divulgativo, quotidiani, periodici, libri, testate online. Sono apparsi suoi contributi nella collana Salute e Società edita da Franco Angeli, sulla rivista Il Delfino e la Mezzaluna e sul portale della Fondazione Terra d'Otranto, sulla rivista Altrove edita da S:I.S.S.C., sulle riviste telematiche Psychomedia, Cultura Salentina, sul Bollettino per le Farmacodipendenze e l' Alcolismo edito da Ministero della Salute – U.N.I.C.R.I., sulla rivista Terre del Primitivo, su vari organi di stampa, blog e siti web. Ha collaborato ad attività, studi, convegni e ricerche con S.I.S.S.C. - Società Italiana per lo Studio sugli Stati di Coscienza, Gruppo S.I.M.S. (Studio e Intervento Malattie Sociali), e vari altri enti, società scientifiche, gruppi di studio ed associazioni.

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