venerdì 19 Aprile, 2024 - 5:33:30

La dolce attesa irrevocabile dell’alba che muore nel nostro tempo: da Proust a Magritte

Quando una cultura un popolo perdono il rito i riti smarriscono l’identità. L’identità vive dentro la tradizione che tramanda, attraverso segni simboli atteggiamenti comportamentali, il rito. Il quale, servendosi del mito, riporta tutto ad un incipit di civiltà come se fosse sempre una vita nuova che si ripete rinnovandosi. La consuetudine è un elemento preciso, il quale venendo meno viene meno un modello di atteggiamento. Qui inizia la fine di tutto o addirittura sigla la fine di un atto – fatto cominciato tanto tempo fa. Il tempo è una dimensione ancestrale nell’intreccio tra rito e mito.

Si racconta un tempo non un fatto o una storia. Prende il sopravvento come spazialità del e nel vissuto in un immaginario immobile ma cangiante. Nel tempo si assiste alla contraddizione e contrapposizione del pensiero. Il tempo nel mito è sempre una visione in cui domina il vissuto, ovvero la memoria. Perché tanto tempo fa?

Perché soltanto se vissuto, per un periodo lungo o lungo medio, si stabilisce la “sonorità” della tradizione e del “velo di ragno” che persiste nel tempo giusto del fatto. La consuetudine cessa nel momento in cui la tradizione non ha più senso e quella storia, la storia dalla quale si era partiti, non ha, appunto, più senso. Il senso ha in sé la sensualità circolare della mano che accarezza il ventre. Una simbologia che trova negli archetipi della trasparenza del velo la appartenenza della maternità e della passione.

Il rito termina quando la storia è già finita, quando una civiltà è morta, quando un popolo ha dimenticato perché quel fatto non ha più alcuna importanza. È questione di sensibilità di emozione di percezione. Ancora una volta, sempre il c’era una volta, questi aspetti sono tasselli nella trasparenza del velo dell’antico ritorno come volontà di potenza o di apparenza.

Sensibilità emozione e percezione. Tre codici ricettivi che vengono meno quando quel pathos che si credeva in inizio non c’è più. Se non c’è più significa che lo stesso significante dell’alchimia ha perso lo sfogliare il canto della magia in una intercettazione di sostanzialità sciamanica. Il rito è archetipo sciamanico oltre il tempo mitico. Quando si perde il contatto con il tempo ritmico si perde la magia. Non serve insistere nel tentare di ricostruirlo. Si è rotto in tanti frammenti, impossibili di rimetterli sulla scacchiera del mosaico e il solo rammentare ricordare non ha più alcun valore. È come se non si ascoltasse più la sonorità stessa della musica dentro le parole del tempo. Il tempo rituale è il tempi magico.

Il ricordare è la componente fondamentale della nostalgia, ma non restituisce nulla se non la malinconia. Le culture i popoli come gli uomini non possono vivere di nostalgia e tanto meno convivere con la nostalgia. Muoiono le culture e non c’è da aver timore. Morendo creano il tempo tragico. Come nei popoli. Come negli uomini. Si consuma un tempo. Ovvero quel tempo non esiste più.

Ecco perché si ha bisogno della trasparenza del velo. Soltanto la trasparenza ci permette di superare il dipinto di Oscar Wilde. È questione dunque di percezione. Siamo Esseri tragici oppure ridicoli. Non comici. Ridicoli in un teatro appesi al silenzio imponente di Munch o alla icona di un Magritte senza sguardo apparente.

Il vero nichilismo, in fondo, nasce dalla disperazione di un tempo che una volta c’è stato e che non c’è più. Si cerca di afferrarlo e oltre alla nostalgia e al tempo perduto, che sono ombre, insiste una perdurante e perturbante inquietudine impalpabile e vera che conduce alla disperazione. Disperante inquietudine che corre alla ricerca del nulla. Ciò che si è perso non c’è più e niente potrà farlo ritornare come momento centrale di una vita. La memoria custodisce soltanto il ricordo fino al giorno in cui nulla resterà.

La consapevolezza di questo nulla è l’alba bruna del nichilismo. L’effetto tragico si consuma tra l’essere impeccabili come gli antichi sciamani di Castaneda o essere tragici e magici come lo Zaratustra di Nietzsche. Circolarità o infinito? Il dilemma del dubbio porta alla verità indissolubile della incertezza.

Vivere in un cono di ombre è la sicurezza. Dà sicurezza perché soltanto l’ombra e il buio resteranno nascondimento della vita. Il velo è inappuntabile e inseparabile dalla trasparenza nella morte che ci raggiunge nella nostra invocabile vulnerabilità. Il nichilismo vorrebbe nascondere semplicemente la luce e i riflessi di essa. Il nascondiglio è l’anima vagante oltre il riveder le stelle della profezia. Ciò però porta all’annientamento, perché la consapevolezza del nulla recuperabile in vita è disperazione.

Nulla è recuperabile nel momento in cui il “memento d’attimo” svanisce. Lo svanire è la terribilità del velo. Ed è così che la consapevolezza della irripetibilità del rito convince nel fatto – dato che quel tutto è possibile se è trasformato in un nulla che non è più ritornabile. Così l’antico ritorno è soltanto illusione. L’illusione è una chiarezza insostenibile persino nella luce. La morte di Dio è proprio nel cerchio in cui Dio è morto, e infatti il ritorno é un immaginario che resta empiricamente e metaforicamente nella propria visione con la conoscenza, comunque, che la visionarietà è non finzione, ma semplicemente l’anticamera della follia.

La perdita del rito porta le civiltà alla indifferenza e alla noia. L’indifferenza se non si trasforma in una dimensione altra rispetto al vuoto conduce, dunque, alla onnipotenza del vuoto. Le culture proprio per questo cercano di autoproteggersi con la includenza della trasmissione di graffianti icone di mito. Il mito è un segreto legato alla inclusione del mistero. Se prendessimo in una mano il mistero il segreto si rivelerebbe. Arriverebbe anche la morte dell’anima.

La religiosità del mito include. Non esclude. Il mito è la vera forza del tutto anche quando il tutto è diventato nulla. Ma il mito si inventa la letteratura. La religiosità è metafisica della confessione tra le ombre e il velo. Il tempo si attraversa. Non si uccide. Si abita soltanto nella bella stagione del viaggio inseparabile indecifrabile pur nella dolce attesa dell’alba che muore nella morte del nostro tempo. Un’attesa. Irrevocabile.

Il segno della fine è sempre lo scardinamento di un viaggio. Che sia nel mezzo o oltre ha poca attrazione. Ci sono intermittenze che portano alla consapevolezza di una vita vissuta in ribellione di libertà. Un tempo inequivocabile che appartiene agli uomini che non hanno mai accettato compromissioni e la rivolta è la tangenziale che oltrepassa il caos. Anche la fine ha i suoi simboli. Bisogna cercare di convivere con la consapevolezza della fine per terminare nella vestizione di impeccabile ribelle. La verità è che Dio è morto veramente. È stato ucciso dalla corruzione tra civiltà e potere e dalla miseria degli uomini che legandosi ad una chiesa si sentono dei e demoni. La fine è un tempo irresistibile che la bellezza ha suicidato. Dio che si considerava un Immenso è semplicemente il Nulla.

La bellezza è lo scandalo di Dio. Ha il mistero dell’ignoto e il segreto dell’enigma. Non si afferra. È indecifrabile perché ha il volo dell’assurdo gabbiano che muore nel momento in cui si ferma su una maschera d’acqua tracciata da una onda dubbia. Pur non temendo il tempo la bellezza è attraversata dal tempo rendendola vulnerabile come gli amanti di Magritte che non hanno volto. A proposito di ciò. I simboli sono surreali perché cercano di mantenere in vita ciò che è morto. Ma hanno la bellezza di non temere. Il surrealismo ha bisogno dei simboli perché rende tutto metafisico. Come in de Chirico o in Proust. Se si ha paura del tempo che possa uccidere l’enigma del mistero ha la corruzione nell’anima.

La bellezza è anche l’errore di Dio. Perché creandola ha permesso alla bruttezza di esistere. Se la bellezza c’è è perché c’è la bellezza. Quando si permette di uccidere la bellezza si uccide sempre Dio perché gli abbiamo permesso non solo di crearla e farla assurgere a distinzione ma perché ci lasciamo corrompere da essa. Rincorrere il tempo passato e volendolo ritrovato non si fa altro che tentare di superare Dio. Sembra che nel tempo ritrovato viva la bellezza consegnata al tempo passato. Sembra. Tutto può essere consolazione e ribellione. La consolazione è la morte di tutto. La ribellione vivrà negli uomini liberi impeccabili profetici che conoscono la sfida di Dio.

Pierfranco Bruni

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Notizie su Pierfranco Bruni

Pierfranco Bruni
E' nato in Calabria. Ha pubblicato libri di poesia (tra i quali "Via Carmelitani", "Viaggioisola", "Per non amarti più", "Fuoco di lune", "Canto di Requiem", "Ulisse è ripartito", "Ti amero' fino ad addormentarmi nel rosso del tuo meriggio"), racconti e romanzi (tra i quali vanno ricordati "L'ultima notte di un magistrato", "Paese del vento", "Claretta e Ben", "L'ultima primavera", "E dopo vennero i sogni", "Quando fioriscono i rovi", "Il mare e la conchiglia") La seconda fase ha tracciato importanti percorsi letterari come "La bicicletta di mio padre", "Asma' e Shadi", "Che il Dio del Sole sia con te", "La pietra d'Oriente ". Si è occupato del Novecento letterario italiano, europeo e mediterraneo. Dei suoi libri alcuni restano e continuano a raccontare. Altri sono diventati cronaca. Il mito è la chiave di lettura, secondo Pierfranco Bruni, che permette di sfogliare la margherita del tempo e della vita. Il suo saggio dal titolo “Mediterraneo. Percorsi di civiltà nella letteratura contemporanea” è una testimonianza emblematica del suo pensiero. È presidente del Centro Studi e Ricerche “Francesco Grisi”. Ricopre incarichi istituzionali inerenti la promozione della cultura e della letteratura. Ha ricevuto diversi riconoscimenti come il Premio Alla Cultura della Presidenza del Consiglio dei Ministri per ben tre volte. Candidato al Nobel per la Letteratura. Presidente Commissione Conferimento del titolo “Capitale italiana del Libro 2024“, con decreto del Ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano del 28 Novembre 2023.

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