martedì 19 Marzo, 2024 - 3:27:46

Gli albanesi a Sava tra la fine del XV e gli inizi del XVI secolo. Studi, fonti storiche e contraddizioni sulla loro presenza e influenza nella cittadina jonico-salentina e nella ripopolazione del casale

Sul sito web del SIUSA (Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche) si legge che il Casale di Sava, abbandonato per un decennio a causa di incursioni, intorno al 1460 “fu ripopolato dall’immigrazione di albanesi giunti al seguito del condottiero Giorgio Castriota Skanderbeg”. Da quale fonte i redattori SIUSA abbiano tratto questa notizia non è dato capire poiché non esiste una nota di rimando, ma soltanto una bibliografia finale del testo complessivo che in questo portale descrive il Comune di Sava.[1] Questa ricostruzione cozza con quella del Coco (pur citato nella bibliografia SIUSA come una delle principali fonti), il quale nella sua opera “Cenni storici di Sava” dedica un intero capitolo alla questione, intitolato: “Sava non fu mai casale albanese”. [2]

Territorio e confini dell’ Albania Salentina in uno schizzo del Pacelli ripreso dal Coco

Territorio e confini dell’ Albania Salentina in uno schizzo del Pacelli ripreso dal Coco

Molti anni dopo gli studi del Coco, Gaetano Pichierri riprende le ricerche sulla eventuale presenza albanese in Sava rintracciando alcune importanti notizie. Il Pichierri, pur concordando con il Coco sul fatto che Sava non fu un vero e proprio casale albanese, rintraccia però la presenza di nuclei albanesi nel paese[3], a partire da una data imprecisata e imprecisabile che tuttavia può essere collocata tra il 1460 circa (e dunque in coincidenza con la data proposta dal SIUSA e con il periodo di immigrazione legato alla venuta di Skandemberg) e il 1530, periodo in cui anche nella vicina Manduria si registra la presenza di nuclei albanesi.

Se le date della prima presenza albanese in Sava son quelle fornite dal SIUSA, coincidono con il periodo in cui feudatario è (nella ricostruzione che compie il Coco intorno alle successioni feudali di questo paese) Stefano Mayra di Nardò. Vedremo più avanti, invece, come circa 70 anni dopo (ovvero intorno al 1530) si instaura, secondo alcune fonti, un temporaneo possesso del feudo di Sava da parte di un condottiero albanese, Teodoro Bisquet. Si tratta di un dato che il Coco, forse un po’ frettolosamente, rigetta, e che il Pichierri non menziona né correla agli altri dati della propria ricerca.

Il Coco identifica Giacomo del Tufo come primo feudatario del feudo di Sava dal 1434 circa. Tuttavia egli stesso rintraccia un documento del 1417 in cui è menzionato (secondo lo storico per la prima volta) il Casalis Save: si tratta in questo caso di un assenso prestato dalla Regina Giovanna II al milite Ciccarello Montefuscolo, per comprare la Baronia di Uggiano e vi sono delineati i confini intorno a Uggiano, tra cui appunto il Casalis Save.[4] In questo periodo, secondo le ricostruzioni del Coco, il Casale risulta abitato per essere abbandonato pochi anni dopo[5] ma non è dato capire chi ne fosse feudatario, né da chi, e come, sia stato poi ripopolato. Nel 1454 Giacomo Del Tufo avrebbe venduto, come si è detto, i casali di Sava, Pasano, Aliano e Olivaro a Stefano Mayra di Nardò. Detti casali risultano disabitati a quel tempo a causa delle frequenti incursioni e devastazioni dei turchi. Sempre secondo il Coco, nel 1520, ritrovatosi in ristrettezze finanziarie, il Mayra vende i feudi di Sava, Aliano e Pasano, a Nicola Prato, e qui inizia la storia della baronia di Sava governata dai Prato.

La vendita del casale di Sava da parte di Giacomo del Tufo a Stefano Mayra sarebbe avvenuta dunque proprio nel periodo delle incursioni e dell’abbandono del casale da parte dei suoi abitanti.

E’ una comunità albanese a ripopolare il casale, in concomitanza con l’arrivo del flusso migratorio che accompagna la venuta di Skandemberg, oppure il casale, in coincidenza con quel periodo (1460-61) viene ripopolato da gente indigena e a costoro si uniscono, forse anche non in perfetta coincidenza ma anni dopo, piccoli nuclei albanesi? Oppure ancora, non è esattamente intorno al 1460, ma qualche anno o addirittura decennio dopo, che il casale viene ripopolato? Difficile rispondere con certezza a queste domande, sta di fatto che dal 1460 in poi l’ondata migratoria albanese in zona continua a fluire (anche dopo la morte dello Skandemberg avvenuta nel 1468) e che nel 1530 si registrano nuove ondate di migrazione. In questo arco temporale sappiamo per certo che Manduria è interessata da stanziamenti albanesi[6]. Ma lo è anche Sava, in quanto nel I Libro dei Battezzati di Sava che va dal 1572 al 1613 [7] si ritrovano diverse famiglie di sicura origine albanese, che sono le seguenti:

Bianco; Muscalora; Clagni; Piccinno; Di Stradi; Russo; Melle; Di Noi; Pichierri.

I primi 6 cognomi sopraelencati sono prersenti anche nel Librone Magno manduriano. Il cognome Melle (variante, Mele) è ancora frequente in Albania; Di Noi, derivante da Di Noja ha anch’esso un corrispettivo albanese ed è presente anche a Ginestra (Potenza), località di italo-albanesi; Pichierri trae origine dal nome di un paese albanese della zona di Himara.

Altri cognomi di derivazione albanese sono secondo lo studio del Pichierri i seguenti, presenti anche in Faggiano, battezzati in quest’ultimo paese secondo il rito greco tra il 1633 e il 1664 e chiamati dallo stesso Coco italo-albanesi: Magagnino, Cannarile, Pellicano, Tripaldo. [8] Di probabile derivazione albanese il Pichierri ritiene anche i cognomi Brigante, Vitale e i seguenti che forse non sono più presenti in Sava (o lo sono con varianti, es. Carrieri = Garriero) ma che lo erano ai tempi del I Libro dei Battezzati: Garriero, D’Avoljo, Ragali, Vieneri, Poliero, Barboti.

Costumi Arbereshe (foto dal web)

Come si è detto, il Pichierri, e prima di lui il Coco, escludono che Sava fosse da considerarsi casale albanese; però mentre il Coco non fa cenno alcuno della presenza albanese in Sava, il Pichierri sostiene che propaggini della migrazione albanese giunsero anche in questo paese e furono accolte dalla popolazione: “Sava, al centro di tante sedi di stanziamento albanese, non compare in nessun elenco, né viene menzionata in alcun documento. Tuttavia è indubitabile che, sebbene non cospicua, qualche propaggine della migrazione giunse fino a questa ridente cittadina del Salento che pure, e giustamente, il Coco categoricamente esclude dal novero dei casali albanesi”. [9] Più avanti, il Pichierri scrive (in riferimento al I Libro dei Battezzati) che “le notizie di questo registro non sono tali da far ritenere molto folto il nucleo di tali immigrati”[10]; successivamente, che : “Certamente Sava accolse famiglie albanesi fuggite dal proprio paese per salvare insieme alla vita anche la fede dei propri antenati di fronte allo incalzare della furia devastatrice dei Turchi. Esse in questa cittadina non incontrarono ostilità né impedimenti alla attività lavorativa e potettero vivere con una qual certa loro dignità; si fermarono un po’ ovunque e dovunque trovarono accoglienza a dir poco umana, che permise loro un rapido inserimento nella vita delle popolazioni locali che le ospitavano. Ciò si desume da alcuni particolari che vengono fuori dalla lettura del I Libro dei battezzati, come fa pensare la scelta dei padrini che veniva fatta tra i gruppi dei dimoranti nuovi e dei residenti vecchi senza soggezioni e senza preclusioni”. [11]

La tesi del Pichierri, basata sulla raccolta meticolosa del maggior numero di informazioni disponibili e sull’incrocio di vari dati e documenti, è inequivocabile: in Sava giungono propaggini della più cospicua migrazione che coinvolge casali viciniori, e Sava accoglie famiglie albanesi, dunque è ripopolata secondo lo storico non certo da questi nuclei ma da gente indigena o dei paraggi.

Il Pichierri data l’arrivo degli albanesi in Sava e Manduria al periodo dello sbarco di Giorgio Castriota Skandemberg, ovvero intorno al 1460: “Ai margini della cosiddetta Albania Salentina, la presenza di questi immigrati è stata fino ad oggi poco conosciuta, ma ogni dubbio può dirsi dissolto su questo punto dopo che le ricerche esperite a Manduria ed a Sava hanno dimostrato l’effettiva esistenza di nuclei etnici albanesi in questi centri. Il loro arrivo è da attribuire alla prima ondata guidata dallo Skandemberg, poiché battezzati con il rito latino si rinvengono già registrati nell’anno 1530. Indubbiamente a tale data si deve premettere una fase di ambientamento, svoltasi in un arco di tempo parti ad un paio di generazioni, durante la quale i nuovi arrivati si stabilizzarono contraendo rapporti di ogni genere, con l’ambiente indigeno con il graduale affievolimento dell’originario loro linguaggio, delle usanze e della liturgia greca. E’ a questo punto che a Manduria incominciano a comparire nei registri dei battezzati, prima con denominazioni approssimative e con appellativi certi per quanto concerne la loro provenienza, in seguito con cognomi via via sempre più definiti”. [12]

Quel che è certo è che a Sava si annoverano persone di origine albanese nel primo Libro dei Battezzati pervenutoci che registra le nascite a partire dal 1572. Il Tomo I dei Libri Battesimali della Chiesa Collegiata di Casalnuovo (Manduria) ricomprende invece i battezzati manduriani dal 1530 al 1599. Anche qui si ritrovano battezzati figli di genitori albanesi e dunque è da ritenersi ragionevole la tesi del Pichierri che identifica la venuta degli albanesi in queste zone da “almeno un paio di generazioni” antecedenti a questi anni.

Esiste tuttavia un ulteriore dato, trascurato dal Pichierri, che può rappresentare un indizio: sembra che Sava appartenne, sebbene per un periodo limitato, al Capitano albanese Teodoro Bisquet. Il Coco rigetta questa ipotesi pur ritrovandola in una citazione dello studioso Borrelli, che attribuisce il feudo di Sava come espropriato ai Prato dai rappresentanti del Vicerè in provincia (a causa delle simpatie mostrate dai Prato per i francesi), e ceduto al figlio di Teodoro, Giovanni Battista Bisquet. In realtà, pare che il capitano albanese Teodoro Bisquet possedette per davvero il feudo di Sava, sebbene temporaneamente, sino alla restituzione ai Prato. Secondo alcune ricostruzioni storiche Teodoro Bisquet lo deteneva per conto del figlio Giovanni Bisquet, defunto.[13] Teodoro Bisquet fu a quel tempo anche feudatario di Melpignano, il qual feudo aveva ricevuto in temporanea concessione per gli stessi motivi per i quali il feudo savese fu tolto ai Prato: la famiglia De Ayello a quel tempo feudataria di Melpignano, era stata accusata di aver parteggiato alla seconda congiura dei baroni napoletani contro la dominazione spagnola, parteggiando per i francesi [14]. Stessa accusa venne mossa alla famiglia Prato[15] .

Dalle fonti storiche sappiamo anche che in quel periodo, ovvero intorno al 1530, il casale di Sava comprendeva tra i 160 e i 240 abitanti: fu difatti tassato per 40 fuochi con rendita di 123 ducati, e valutato 2000 ducati. [16] Nel 1533 la vedova di Nicola Prato Paola de Palmeriis riacquista, con l’offerta di 500 ducati al Regio Fisco, il feudo di Sava affidandolo al suo figlio primogenito Pompeo Prato. Se questa traccia è veritiera, si può anche ipotizzare che è proprio in quel periodo, durante la temporanea detenzione del feudo da parte del capitano albanese Bisquet, che in Sava si stanziano nuclei albanesi. Tale data coincide anche con una delle massicce ondate di migrazione albanese di quegli anni nelle nostre zone, e in particolare con l’arrivo del capitano Demetrio Capuzzimati che proprio nel 1530 ottiene da Carlo V il vicino feudo di S. Marzano.

Nella seconda metà del secolo XVI si registra in Sava anche la presenza del cognome Pichierri di origine albanese, rispetto al quale lo storico locale Gaetano Pichierri compie una accurata ricerca.

Nel 1574 Fiorita Pichierri, di origini albanesi, tiene a battesimo insieme a Donato Dello Martire la piccola Lavinia, figlia di Donato Gioia e Candea Mancini. Lo storico locale ne deduce che già a questa data l’inserimento delle persone di origine albanese nel paese di Sava è totale, in quanto Fiorita Pichierri è chiesta a far da madrina insieme ad un rappresentante di una delle più antiche famiglie savesi e tra le più influenti dell’epoca. Nel 1587 Fiorita Pichierri fa ancora da madrina e subito dopo questa data trae matrimonio con Mariano Mele, anch’egli di origine albanese. Fiorita Pichierri e Mariano Mele hanno cinque figli tutti battezzati con rito latino (e non con rito greco come fa a quei tempi la comunità albanese): questo particolare fa dedurre a Gaetano Pichierri che “ la colonia degli albanesi a Sava non era perciò molto numerosa, e che il suo rito greco era stato assorbito rapidamente da quello latino. I Vescovi d’allora avevano messo grande impegno a far scomparire la officiatura greca, ma tale impegno non raggiunse l’intento ove le colonie degli esuli erano numerose, come può rilevarsi dalla situazione di Faggiano e S. Marzano”. [17]

Il quinto figlio di Fiorita Pichierri viene battezzato nel 1592, e gli fa da padrino Don Silvio Prato, nipote della feudataria di Sava Baronessa Ippolita Prato. Secondo Gaetano Pichierri, questo ed altri elementi fanno ritenere che la famiglia di Fiorita Pichierri fosse di buon livello sociale oltre che perfettamente inserita nel tessuto sociale savese.

Un altro elemento rintracciato da Gaetano Pichierri nelle sue ricerche sul piccolo nucleo albanese stanziato in Sava all’epoca, è la tendenza a contrarre matrimonio tra individui di origine albanese: oltre al già citato caso di Fiorita Pichierri e Mariano Mele, si osservano ad esempio le unioni, sempre in quel periodo, tra Marc’Antonio Pichierri e Marchesa Vitale; quella di Vittoria Vitale che va in sposa al manduriano Giovanni Di Lia anch’egli di origine albanese; qua e là, nel suo studio, il Pichierri cita altri esempi.

Frontespizio del Librone Magno manduriano

Tra le fonti consultate dal Pichierri, c’è anche l’ Accademia delle Scienze di Tirana che risponde con sollecitudine, nella persona del Prof. Spiro Skurti, ad una serie di richieste documentarie del Pichierri stesso. Così, il Pichierri apprende che nel secolo XV esisteva nella zona di Himara, a sud di Valona, un paese che dà le origini al cognome Pichierri (tale paese è Piqerras). A partire dal periodo di Skandemberg, dalla zona di Himara giungono diversi soldati e famiglie albanesi (Himara è una delle zone più investite, difatti, dalla invasione ottomana che determina la migrazione degli albanesi verso i casali del versante orientale di Taranto). Vicino Piqerras esisteva (ed esiste tuttora) il paesino Borsh, dal cui nome secondo le ricerche del Pichierri originano tutti i Borsci.

Dalla documentazione reperita dal Pichierri (e che pubblichiamo qui in appendice) possiamo dedurre che anche i cognomi Miccoli (Menkuli, Mikuli in Albania), Gioia (Gjoka), Mero (Mlijero) sono, insieme ad altri, di probabile discendenza albanese, così come il cognome Pierri ricompreso anch’esso nel succitato registro savese dei Battezzati e che ha il suo analogo albanese in Pjetri.

Per completezza informativa, e tornando al I Libro dei Battezzati, occorre specificare che questo libro, prima che dal Pichierri, fu visionato dallo stesso Coco, il quale riporta un elenco delle famiglie rilevate, attribuendo però le origini e la provenienza di molti dei cognomi citati dal Pichierri non a nuclei albanesi, ma a migrazioni da altri paesi del Salento. Così, secondo il Coco la famiglia Melle viene da Ugento, Mero da Casalnuovo (Manduria), Bianco, Brigante, Carrieri, Veneri e altri da Lecce; Pichierri da Francavilla; Vitale da Uggiano; di altre famiglie (il Coco fornisce un lungo elenco)[18] non specifica il paese ma le annovera comunque tutte come giunte da paesi vicini, per matrimoni contratti o per parentela e amicizia con i feudatari Prato.

Dai documenti e dagli studi superstiti non risulta possibile risalire a quanti abitanti ammontava la popolazione savese nel presunto periodo in cui il casale fu ripopolato (1460 circa) ma sappiamo che 70 anni dopo, nel 1530, come specificato anche innanzi, c’erano 40 fuochi (circa 200 abitanti)[19], e che via via, e da lì a poco, la popolazione aumenta considerevolmente: nel 1565 si contano circa 400 abitanti [20] nel 1596 si contano 126 fuochi (circa 600 persone)[21] e nel 1643 sono registrati 206 fuochi (circa 1000 abitanti)[22]. Posto dunque che il ripopolamento sia avvenuto effettivamente intorno al 1460, è difficile immaginare che vi fossero più di 100 abitanti.

In conclusione, non sappiamo, né possiamo affermare con certezze di sorta, cosa avvenne in quel lasso di tempo che va dal periodo in cui Sava risulta casale disabitato sino al periodo del suo ripopolamento. Secondo il Coco, difatti, a partire dal 1417 circa, il Casalis Save è abitato “per un trentennio o poco più”; verso il 1454 “per nuove incursioni lo troviamo disabitato” e “poscia riabitato verso la seconda metà del secolo XV”.[23] I ricercatori del SIUSA prendono per buona questa ricostruzione del Coco ma vi inseriscono un dato del quale non spiegano la provenienza, ovvero un presunto ripopolamento del casale, intorno al 1460, ad opera degli albanesi; il Coco, invece, dedica ben sette pagine della sua opera a smentire, con l’aiuto di numerose fonti documentarie e storiche, una presenza albanese in Sava in quel periodo. La meticolosa ricerca del Pichierri, a sua volta, non smentisce i dati e l’analisi forniti dal Coco ma rintraccia la presenza di piccoli nuclei albanesi nel periodo immediatamente successivo al ripopolamento del casale. Una spiegazione della presenza dei nuclei albanesi rintracciati dal Pichierri potrebbe essere data dal temporaneo possesso del feudo di Sava del capitano albanese Teodoro Bisquet avvenuto, secondo alcune fonti, intorno al 1530 (in ogni caso successivamente alla data proposta nel portale SIUSA, ovvero 70 anni dopo la venuta di Skandemberg). Ma anche questa è una ipotesi, e non una certezza. Il Coco pretende di dimostrare che i Bisquet non possedettero mai il feudo di Sava, ma non apporta a questa sua convinzione elementi tali da poterci fare escludere l’ipotesi, che peraltro coincide con una serie di avvenimenti similari avvenuti in altri feudi. Tuttavia, se il feudo fu effettivamente dato in temporanea concessione a questa famiglia albanese, ciò avvenne per un periodo di tempo assai effimero (appena tre anni, o poco più, sino alla ripresa del possesso del feudo da parte della famiglia Prato). Neppure è da escludere, però, e prescindendo dal possesso o meno da parte dei Bisquet, che in concomitanza con il ripopolamento del casale avvenuto ad opera di nuclei indigeni, non siano stati accolti, a partire dal 1460 o poco dopo, i primi “piccoli nuclei” dei quali parla il Pichierri.

Una edizione fuori commercio della ricerca del Pichierri estratta dallo studio pubblicato su Rassegna Salentina

 

documenti dalla ricerca del Pichierri

 

documenti dalla ricerca del Pichierri

 

Gianfranco Mele

 

  1. Questo il testo completo presente sull’archivio online SIUSA: “La prima testimonianza scritta dell’esistenza di un casale denominato Sava è contenuta in un documento redatto nel 1417 dalla regina di Napoli Giovanna II, dove sono enumerate tutte le terre annesse al principato di Taranto infeudato agli Orsini Del Balzo. L’insediamento sorse probabilmente a seguito della parziale distruzione nel 1378 dei vicini casali di Aliano, Pasano e S. Maria di Bagnolo, devastati da continue scorrerie durante le guerre di successione tra Angioini e Aragonesi; numerosi abitanti dei casali si rifugiarono nella più sicura contrada detta “i castelli”, da cui sarebbe sorta Sava verso la fine del XIV sec. (cfr. F. A. Primaldo Coco, “Cenni storici di Sava” [Lecce, Stab. Tip. Giurdignano, 1915], rist. anast. Manduria, A. Marzo, 1984). A causa di nuove incursioni anche il recente insediamento fu abbandonato tra il 1450 circa e il 1460, quando fu ripopolato dall’immigrazione di albanesi giunti al seguito del condottiero Giorgio Castriota Skanderbeg. Tra il 1520 e il 1630 il feudo di Sava, insieme ai suffeudi di Aliano e Pasano, furono acquistati dai baroni leccesi Prato. Con la morte dell’ultima discendente diretta, Ippolita Prato, che aveva assegnato alla Compagnia di Gesù parte dei propri beni, si aprì nel 1631 un lungo contenzioso per il possesso del feudo tra gli eredi della baronessa e i gesuiti; nel 1743 la secolare lite si risolse, per transazione e con il regio assenso di Carlo di Borbone, a favore dei gesuiti, che in realtà avevano continuato nel frattempo a reggere il feudo. La baronia di Sava con i suffeudi di Pasano e Aliano, soppressa nel 1767 la Compagnia di Gesù, divenne terra regia e la sua amministrazione fu affidata a un commissario. Nel 1798 subentrò per pochi anni l’ultimo feudatario, Giuseppe De Sinno; la legge del Regno di Napoli 2 agosto 1806 n. 130 abolì definitivamente la feudalità e tutte le sue attribuzioni. “
  2. Coco, Primaldo, Cenni Storici di Sava, Stabil. Tip. Giurdignano, Le, 1915, pp. 81-87
  3. Tuttavia lo studio di questo ricercatore non è citato dal SIUSA, neanche nelle fonti bibliografiche.
  4. Coco, Primaldo, op. cit., pag. 64.
  5. “Pare che fosse stato allora abitato per circa un trentennio o poco più. Per nuove incursioni lo troviamo disabitato verso il 1454 e poscia riabitato verso la seconda metà del secolo XV” (Coco, P., op.cit., pag. 64)
  6. Pichierri, Gaetano, Altri cognomi di origine albanese nel tarantino pp. 13-16; AA.VV:, Librone Magno delle famiglie mandurine, Manduria, 1572-1700
  7. Il libro è custodito nell’ Archivio della Chiesa Madre di Sava ed è proprio Gaetano Pichierri ad averlo consultato traendone le notizie qui riportate. Secondo lo storico savese tale registro è denominato impropriamente “I Libro” ma sarebbe stato preceduto da un altro andato perduto.
  8. Seguono nell’elenco faggianese altri cognomi più specifici di Faggiano e non presenti – o non attualmente presenti – in Sava. Tra quelli sopra citati invece, Malagnino potrebbe essere una variante di Magagnino, Tripaldi di Tripaldo ecc. . Gli altri cognomi citati dal Pichierri come di origine albanese e presenti in Faggiano sono: Palumbo, Marseglia, Fumma, Aramte, Assi, Gerbiscia, Maresi, Motulese, Araniti, Decarlo, Criranna, Sciribisci, Scorrano, Arirpoli, Colluccia, Grusi, Heri, Golemmi.
  9. Pichierri, Gaetano, op. cit., pag. 17
  10. Pichierri, Gaetano, op. cit., pag. 18
  11. Pichierri, Gaetano op. cit. pag. 19
  12. Pichierri, Gaetano, op. cit. pag. 13
  13. Palazzo, Donato, Quinto Mario Corrado umanista salentino del ‘500, Congedo Ed., 1978, pp. 89-90
  14. Dal sito web http://www.grecia-salentina.it/MELPIGNANO/g/ga.html :“La famiglia de Ayello la troviamo invischiata nella seconda congiura dei baroni napoletani contro la dominazione spagnola parteggiando per i francesi. Con il fallimento della spedizione francese in Italia (1528-29) comandata dal Lautrec e con la definitiva vittoria delle armi spagnole (1529), Andrea Francesco pur accusato di tradimento non soffre l’onta di vedersi espropriato dei suddetti feudi, come succede invece ai tanti baroni napoletani che hanno parteggiato per i francesi, grazie alla clemenza che pure l’imperatore Carlo V aveva concesso ad alcuni traditori. Nella visita effettuata nel 1531 dal commissario dell’imperatore Carlo V, Troiano Carafa, al quale viene affidato dalla Regia Camera della Sommaria il compito di visitare e valutare i feudi di Terra d’Otranto e di Bari espropriati ai rispettivi feudatari traditori, il feudo di Melpignano si trova soltanto temporaneamente concesso a Teodoro Bisquet, capitano di una compagnia di soldati albanesi. “
  15. “Trovatosi, in questo tempo nel regno il Cardinale Borghese per procedere contro i ribelli gli furono dal Procuratore del Regio Fisco presentate le accuse contro il Barone di Sava Nicola Prato leccese, e scudatario del regno, per aver nell’invasione e ribellione del 1528 fatto causa comune col nemico e militato contro l’esercito di Sua Maestà cesarea”. Il barone morì prima di subire la punizione; ma i suoi beni furono incamerati dal Regio Fisco” (Coco, P., op. cit., pag. 97)
  16. Pedio, Tommaso, Napoli e Spagna nella prima metà del Cinquecento, Cacucci Ed., 1971, pag. 283
  17. Pichierri, Gaetano, op. cit., pp. 24-25
  18. Coco, Primaldo, op. cit., pag. 120
  19. Pedio, Tommaso, op. cit.
  20. Coco, Primaldo op. cit. pag. 119
  21. Coco, Primaldo op. cit. pag. 120
  22. Ibid.
  23. Coco, Primaldo, op. cit. pag. 64

 

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Gianfranco Mele
Sociologo, studioso di tradizioni popolari, etnografia e storia locale, si è occupato anche di tematiche sociali, ambiente, biodiversità. Ha pubblicato ricerche, articoli e saggi su riviste a carattere scientifico e divulgativo, quotidiani, periodici, libri, testate online. Sono apparsi suoi contributi nella collana Salute e Società edita da Franco Angeli, sulla rivista Il Delfino e la Mezzaluna e sul portale della Fondazione Terra d'Otranto, sulla rivista Altrove edita da S:I.S.S.C., sulle riviste telematiche Psychomedia, Cultura Salentina, sul Bollettino per le Farmacodipendenze e l' Alcolismo edito da Ministero della Salute – U.N.I.C.R.I., sulla rivista Terre del Primitivo, su vari organi di stampa, blog e siti web. Ha collaborato ad attività, studi, convegni e ricerche con S.I.S.S.C. - Società Italiana per lo Studio sugli Stati di Coscienza, Gruppo S.I.M.S. (Studio e Intervento Malattie Sociali), e vari altri enti, società scientifiche, gruppi di studio ed associazioni.

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